Nel giorno delle amichevoli nazionali, cioè di Balotelli che si pavoneggia con il 10 che prima era di Cassano, di Ronaldinho che spera di toccare del cuoio almeno in verdeoro, di Ibra che fa tremare i tifosi rossoneri giurando amore eterno (anche) al Milan, l’uomo del momento è un altro, da un’altra parte.
“È sempre da un’altra parte” dev’essere quello che hanno pensato domenica anche i difensori del Catania, quando cercavano di acchiapparlo e lui intanto ne faceva tre. Javier Pastore è davvero sempre altrove, sfugge sempre a chiunque si aspetti di trovarlo lì, siano spettatori, avversari o, perfino, compagni. Sfugge soprattutto a se stesso, rapidamente in punta di piedi e di fioretto, si impedisce di essere ridotto in definizioni o preso in paragoni: l’inutilità delle insistenze giornalistiche – che si credono suggestive ma suonano soltanto stupite di aver torto – si affanna alla ricerca delle somiglianze con Zidane, con Kakà o chiunque altro abbia fatto stravedere da trequartista. Ma Javier Matías Pastore è soltanto se stesso, e già dire questo è banale eccome, perché enumerare il suo talento appartiene alle imprese cui il linguaggio è estraneo. Eppure, proprio le parole di colui che incarna i resti del più grande genio che il pallone abbia visto, spiegano tutto – perché non vogliono spiegare nulla – del nuovo beniamino rosanero: Diego Armando Maradona, allora commissario tecnico della Selección Argentina, presentò il Verbo a tutto il mondo: “Pastore è un maleducato del calcio”.
El Pibe intendeva che Javier tratta il gioco come se gli appartenesse naturalmente (e in proposito Diego qualcosina ne sa) e quindi non gli tributa riverenze, come se quel viso ancora un po’ infante e quegli occhi sempre sul punto di sorprendersi fossero la fonte, e non solo i testimoni, della magia del fútbol. Lo chiamano El flaco, il magro. Una piccolezza che fa molto dell’aura incantevole di Pastore e rende irresistibile, per noi innamorati, quel suo silenzioso mettersi le partite sulle spalle, che diresti sempre sul punto di frantumarsi e che, invece, scopri essere sostenute da un’inspiegabile enormità. Un pozzo creativo che dà le vertigini se solo si pensa di scrutarne il fondo, e dal quale Javier continua a cavare i suoi personali conigli dal cilindro, in forma di assistenze di tacco, tunnel, dribbling in accelerazione e tiri dalla delicata violenza. Spacca le partite, Pastore, regala balsamo per gli occhi e comincerete a desiderarne ancora e ancora, non importa se diventerà veleno per la vostra squadra.
A fronte di questa poesia, del suo narrarci di gesta calcistiche ancora possibili e di uomini ancora al di sopra del quotidiano ordine pallonaro, l’interrogativo mediatico dominante (oltre a quello, stucchevole, della somiglianza) è diventato: “dove giocherà Pastore, la prossima stagione?”. Sarà pure scontato, poiché sistematico, che grandi talenti e club ricchi si incontrino, ma parlare di Javier Pastore potrebbe essere un’occasione per lustrarsi gli occhi e mostrare anche a chi non condivide (o è ancora giovane per farlo) cosa ci sia di tanto attraente nello spettacolo degli uomini che tirano pedate a una sfera.
Sproloquiare di chi ha i soldi per assumere El flaco, o di quale portafogli a lui piacerebbe fosse fonte del suo stipendio, diagnostica una certa miopia del piacere, un po’ come mettersi a pensare alla pratica da sbrigare la mattina seguente in ufficio mentre si è fuori a cena con una donna meravigliosa. Godiamocelo fino in fondo, è il regalo più inatteso e prezioso che il campionato potesse farci
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