mercoledì 15 giugno 2011

king james? si inchini, c'è il tedesco

LeBron è un giovanottone che – semmai fosse possibile incontrare qualcuno ancora non al corrente della sua grandezza – tiene addirittura due maiuscole nell’onomastico, giusto per mettere le cose in chiaro fin dalle presentazioni. Le immagini in movimento delle sue schiacciate surfano tutte le reti e i media fin da quando era uno scolaretto (per modo di dire, era un marcantonio con la carta d’identità che diceva pubertà) e, quando è atterrato nel mondo degli alieni della pallacanestro, a nessuno è sembrato un sacrilegio che il 23 di sua maestà Michael Jeffrey Jordan gli coprisse – a malapena – le spalle.

Da allora LeBron Raymone James ha trasvolato da Cleveland a Miami, quella stessa 23 è stata data alle fiamme in piazza dai tifosi traditi, il Prescelto ha vestito la canotta degli Heat e, in quel preciso istante, l’inchiostro è piovuto sulle testate di ogni giornale gridando che, entrato a formare i Big Three (Wade, Bosh e il Nostro), LBJ non poteva non mettersi il primo anello al dito, dopo sette anni. Avrete già capito, sagaci, che la Storia non può che avere un inciampo. E con tanto di nome e cognome, e pure nazionalità: Dirk Nowitzki, from Germany. Ora, agli americani non sono mai andati a genio i tedeschi, ma questo spilungone qui, laggiù nel profondo Texas, lo adorano.
Nella città che conosciamo per JR, c’è una squadra che la palla a spicchi sa come trattarla anzichenò e che si fa condurre dal biondo teutonico. Costui è bianco e non nero, le sue pallide braccia non appaiono come la montagna di muscoli tatuata che è LeBron, il mondo intero non si inchina a lui come al Messia James, eppure. Quel trofeo dorato per cui questi mostri strapagati schiantano canestri e articolazioni per tutta la vita, l’ha alzato Dirk. A forza di canestri, infilati da qualunque angolo del parquet, saltando con quella gamba destra che avverte chiunque di stare alle larghe e le braccia geometricamente posate. Un concetto, questo, estraneo a Miami, così il basket non poteva accasarsi lì.
Per LeBron ci sarà ancora tempo, dopo tutto Air 23 vinse la prima volta a 28 anni. Per Dirk c’è la gloria, l’anello del Nibelungo, Dallas ai piedi.

giovedì 9 giugno 2011

Miami Heat. Le mie perplessità


Perché sono i più forti, perché forse sono i più forti ogni ecpoca, perché giocano male, perché non c'è un sistema che io ricordi che renda soltanto da una parte del campo, perché Lebron James quest'estate ha messo su quella pupazzata imbarazzante, perché sono troppo forti, perché, come cantava 2pac Shakur, hanno tutti gli occhi addosso, perché fan gia versare un Nilo d'inchiostro, perché son troppo forti... Non so perché, ma parlare degli Heat, se uno segue la palla a spicchi, è inevitabile.


Comincio a vedere gara 2 tra Miami e Dallas all’ora in cui gli inglesi bevono il te e finisco all’ora in cui iniziano i film col bollino rosso in seconda serata, con il telecomando in mano e un febbrile e tarantolato REWIND. Non credo ai miei occhi. Ho appena assistito ad una partita di una serie finale di playoffs senza precedenti. Stento a credere che il tedescone gliel’abbia vinta ancora, e che Lebron e i suoi isolamenti gliel’abbian fatta perdere un’altra volta.

Questi ultimi pensieri però, sarebbero legittimi soltanto se qualcuno avesse visto gli ultimi 6 minuti della gara, perché in realtà l’intera partita diceva ben altro. Diceva che Dallas a 6 giri di lancette dalla fine, nell’inferno bianco della triple-A (American Airlines Arena, ndr) era sotto di 15 e tutto sommato meritatamente, se non per il gioco (che per i mavericks non latita mai del tutto) per le 17 palle perse, inconcepibili per una gara di finals e per gli anni di pallacanestro che i texani c’han sul groppone che fino a quel momento parevano un handicap, non una forza inestimabile. 6 turnovers in società Kidd-Nowitzki, una valanga di buoni open-shots sbagliati (anche quelli in un attacco così ben congegnato non mancano mai), Terry e Stojakovic fuori dal palazzetto e quel dito rotto che al tedesco avrebbe dovuto dolere abbastanza. Insomma, i Mavs sono sempre stati a contatto per almeno tre quarti di gioco ma questo non bastava perché poi, come fossimo in un videogioco, arrivava il quarto quarto, si cambiava schema e per quanto si fosse attrezzati e in salute, il mostro di fine livello lo si doveva incontrare e era parecchio grosso.

Fondamentale, a quel punto, provare ad invertire rotta a costo di rischiare qualcosa. Per questo Carlisle l’ha buttata sui piccoli: Kidd, Barea e Terry insieme (100 anni in tre e 5 metri messi uno sopra l’altro) a contrastare una squadrona alta fisica ed atletica come quella miamese.

In effetti non è andata benissimo, palla persa contropiede, palla persa contropiede, palla persa e bomba. -15 dalla sirena. Timeout; fuori i piccoli e si torna al quintetto base, senza Stevenson ma ovviamente con il piccolo grande Jet. Terry che fino a lì aveva lavorato per otto punti ma pochissima presenza di spirito, tirando male e facendosi trovare impreparato palla in mano, entra dopo il timeout, quando probabilmente Peterson avrebbe gia annunciato la celebre, immortale e tutto sommato stancante “mamma butta la pasta”, entra e mette due bei tiri in sospensione. – 11, timeout miami. Spoelstra in panchina a dire : “raga, l’esultanza pugilistica LBJ D-Wade bella eh, però quelli là sono vecchi, arrabbiati e aperti all’immigrazione tedesca quindi magari aspettiam a mollare và!”. Poi avviene il crack, Miami si espone ad un parziale 16-3 ma, peggio ancora, si adagia su continui, insensati, prevedibili, inutili, lenti e soporiferi 1Vs il mondo di Lebron. Sia chiaro, non colpevolizzo il ragazzo dell’Ohio, lui fa il suo, talvolta prova a passarla ai compagni che però (sottoposti il loro), gliela restituiscono immediatamente, e allora che fare? Perché non uno step-back da 8 metri ad un secondo dalla fine dei 24? E non una volta, non due, ma bensì tre volte in due minuti. Poi poco m’interessa che dall’altra parte entri tutto, sono le finali NBA in fondo.

Miami non ha perso per un mero problema “mentale”, che di certo comunque ha influito (per me, con un play in campo, o meglio, con un play che ha il diritto di portare su la palla, un canestro si sarebbe riuscito a segnarlo, ma di play a Miami non ne vogliono sapere), ha perso per un difetto tecnico, un difetto che, ed è questo che mi stupisce, c’è da tutto l’anno e a cui la direzione della florida non sembra voler porre alcun rimedio. Lebron la prende sulla rimessa e basta, fa lui. Non si può vincere l’anello così e non capisco come a Spoelstra, o meglio, ai i suoi assistenti, non venga mai in mente di far giocare gli altri. E’ indicibile. Qual'è infatti l’unico canestro messo a segno da Miami negli ultimi minuti? La bomba di Chalmers (vabbè, facciam di Chalmers e Terry và!) a 24 dalla fine. Siam sempre lì, avere due dei 5 giocatori più forti del pianeta vuol dire trovare sempre qualcun altro libero. Bibby stava segnando (finalmente), Chalmers ha i cojones per tirare da uno scarico, ad Haslem non trema la mano (se si organizza un gioco per lui). Insomma, scelte tecniche che non posso capire. Mi spiace scomodare sempre sua santità, ma quando Jordan doveva vincere la partita la prendeva sì dalla linea di fondo e la depositava nel canestro 28 metri più in là, ma non a tre minuti dalla fine; prima la palla la prendeva Harper, Kerr o chi per loro.

Certo, nel basket contemporaneo il ruolo di playmaker è molto cambiato, forse nemmeno più esiste. Basti pensare qual è il sistema di pallacanestro che ha garantito più vittorie ed anelli negli ultimi 20 anni, la triple post offence, il triangolo Winteriano reso celebre da Phil Jackson prima ai Bulls e poi ai Lakers (non ha abbastanza dita per gli anelli eh, son 11 da allenatore e 2 da giocatore!). Il sistema è il più equilibrato e armonico della pallacanestro (5 giocatori assolutamente intercambiabili alla stessa distanza l’uno dall’altro) , tai-chi in movimento e non concepisce il ruolo di playmaking; posto questo, Miami non gioca la triangolo, spesso sembra giochi una sorta di parallelepipedo e per capirci qualcosa si dovrebbe provare ad unire i puntini a mo' di settimana enigmistica.

Penso anche a quanto potenziale sprecato ci sia nel serbatoio degli Heat e adopero il venerabile Micheal Bibby per esporre il mio parere. Mi è capitato di riguardare recentemente gara-7 delle finali di conference del 2002 tra Sacramento e Lakers (triple-post offence VS Princeton offence, basket tecnico ai massimi livelli, ndr) e di ragionare sul ruolo di Bibby trasportandolo agli Heat. Bibby, più giovane certo ma non un giocatore diverso, lento, un filo macchinoso, ma decisivo (ne metterà 30 in quella partita, pur perdendo) e sopraffino portatore di palla ed organizzatore di gioco (la Princeton offence, sistema nato neanche a farlo apposta all’università di Princeton dove il QI generale è altino anzichenò, e adottato da alcuni allenatori NBA, come Rick Adelman in quel 2002, è un sistema molto complesso dove tutti i giocatori iniziano il gioco sopra la linea del tiro libero e sono sempre coinvolti, con tagli e blocchi, per questo le spaziature devono essere rigorosamente rispettate), è snaturato a dir poco a Miami. Quando, in sede di commento, Bibby prende un tiro dallo scarico, si tende a dire “è lì per quello”, che in se è una supposizione giusta, ma Bibby è tutto fuor che un tiratore da scarichi. Non lo è mai stato e non lo sarà mai, Bibby esce da un blocco con la palla e tira, è sempre stato un tiratore da arresto e tiro, provare a farne lo Stojakovic della situazione, a 33 anni, è assurdo. Ma poi, avresti un playmaker vero in casa, perché non disegnare qualche gioco ogni tanto?

Per tornare alla partita, sono 3 i grandi errori di coaching nell’ultimo quarto. Numero uno rimanere senza time-out: certo, quando si subisce un parziale sì pesante si deve fermare la partita per tentare di tamponare l’emorragia ma, posto che comunque tenere un time-out alla fine è uno dei 10 comandamenti dell’allenatore, almeno, gia che ci si vede in faccia seduti sulla panchina trangugiando Sprite, non converrebbe mettersi d’accordo su come giocare l’azione dopo invece di vedere Lebron che sbraccia e indica ai compagni come preferisce il blocco?

Numero due le (non) scelte offensive di cui sopra: Lbj fermo in palleggio e gli altri a guardare.

Punto tre, e qui, devo davvero concentrarmi per rimanere serio e composto, Bosh su Nowitzki nell’ultimo possesso dopo che Dirk aveva segnato gli ultimi 9 della squadra, Miami aveva subito un parziale enorme e sull’orologio c’è scritto “-24 secondi”? Bosh?Nowitzki va via ad un difensore opinabile com’è l’ex Raptor con un giro in palleggio e appoggia al tabellone… Ma come appoggia al tabellone? Peggio ancora, assurdo azzarderei, la squadra di Spoelstra al momento aveva ancora un fallo da spendere! Non so come raccogliere i pezzi di questo disastro tecnico. Rimani senza timeout, e vabbè, però almeno metto pressione con un difensore buono, nemmeno quello (tipo, non so, hai in campo il migliore difensore, quando vuole difendere, della lega, è un 2.03 di 120 Kg e viene dalla zona più brutta d’America, il nome inizia per L e finisce per N), però dai, a 4 secondi dalla fine mi appendo al tedesco e costringo Dallas ad una rimessa difficile per un tiro da tre. No, Miami in single coverage con un difensore scarso contro la più tecnica, infuocata, strabiliante macchina da punti dell’intera NBA, beh, ovviamente poi, mica lo raddoppiamo! Incredibile davvero, avrei voluto vedere la faccia del capitano del vapore Riley.

Ultima suggestione, che non significa nulla ma mi ha causato pelle d'oca: mettere vicine la faccia di Lebron che festeggia Wade sul +15 e quella di Nowitzki alla fine, con tutti che lo schiaffeggiano sul petto e lui che li guarda come farebbe un maestro KungFu dopo aver neutralizzato l'avversario di una vita (la più grande guerra è quella dentro di noi!)

Per fare un bilancio finale, Miami è tanto più forte e ha avuto dalla sua l’inerzia dell’intera gara, ma continuerò a ripeterlo, vincere da soli non si può, è sbagliato come concetto, e se vincerà quest’anno, sarà, dal mio punto di vista, un anello ingiusto, brutto da vedere e immaturo.

Chiudo questa mia prolissa analisi ancora citando Al Pacino in ogni maledetta domenica: “si può vincere come collettivo o perdere individualmente”.