Ah, il calcio. È spettacolo, è passione, è convivenza. Solo che. I casi sono due: o il calcio è anche qualcosa di molto più noioso e antipatico di quanto appena detto e sa diventare poco più attraente di una tisana al rabarbaro, oppure – e tenderei ad orientarmi su questa ipotesi – il problema sta nel campionato di Serie A. La qualità del gioco, il ritmo mozzafiato e montante dal desiderio della vittoria nell’agone, lo stupore di vedere druidi in calzoncini dispensare incantesimi per sfidare le costrizioni che la fisica impone alle sfere. Questi profumi fragranti e attraenti hanno smesso di salire alle narici del povero spettatore che fin dall’ora di cena – ma di venerdì – si stravacca fiducioso davanti alla tivù. Triplice fischio e si ha solo fretta di dimenticare le brutte scene appena viste dai teatri in prato verde. Venerdì, dicevamo. L’Inter va a Genova; nella settimana in cui tutti si ricorderanno che l’ex grifone Milito non è nell’elenco per il Pallone d’Oro, nessuno si ricorderà, invece, del match. A parte Cambiasso e Julio Cesar – usciti per infortunio – e la coppia Muntari-Eduardo, angelo e diavolo nel gol che decide l’incontro, con papera notevole del portinaio genoano.
Sabato sera, prima va in scena la Roma. Buona recita dei giallorossi, Vučinić a tratti sontuoso, eppure, guarda un po’, non è il calcio che resta negli occhi. Sono invece lo sgambetto un po’ vigliacco di Olivera a Totti, lo spintone che gli rimanda Mr. 1 Centesimo, l’espulsione di entrambi. Francesco vede il rosso e diventa un toro, lo devono tenere in quattro tanta è la rabbia di saltare il derby la prossima settimana. Ma la sera, luci a San Siro, va in scena Milan-Juve. Il tifoso indossa l’abito buono per l’impegno di gala. E scopre che da vedere, se non ventidue ragazzoni che fanno sospettare di farlo apposta, per quanti errori fanno e quanto banali, non c’è nulla. 1-2 e cronisti a sproloquiare di “splendida partita e grande intensità”. Afflosciate le aspettative, c’è la buona vecchia domenica. Tanto vecchia che puzza di stantio se è vero, come è vero, che dopo i primi quarantacinque minuti le pallate delle ore 15 hanno prodotto reti: una. Altre emozioni: niente. Con ordine, durante il pranzo si affrontano il sacerdote Pastore e il profeta Hernanes. Palermo-Lazio non offre gioielli da parte loro, invece è il terzinone Diàs che, su una punizione che spiove pesante, mette il destro e trova l’angolo in alto dove la mamma nasconde la marmellata. 1-0 per gli aquilotti, sempre più in alto e sempre più maturi a quota 22, più quattro sulla banda Benitez.
Arrivano le tradizionali partite in contemporanea e, dopo l’arrosto della domenica, si fatica a tenere la palpebra alzata se il film calcistico ha una sceneggiatura tale. Comunque, pazzesco El Niño Maravilla Alexis Sánchez, che stende il Bari prima spaccando la porta da trenta metri, poi regalando a Isla l’assist per il 2-0 dell’Udinese. Brescia e Napoli, al Rigamonti, sembrano affondare sotto la bufera padana. Invece l’ex Marek Hamsik inventa stop e assist in area, vuol dire gol da due passi per El Pocho Lavezzi. Bel regalo di Napoli a Diego cinquantenne. Sfida tra rossoblù, Cagliari e Bologna, ma questi non ci sono veramente e gli asolani li stendono nella ripresa: Nené apre le danze, le chiude l’ottima staffilata dell’altrettanto ottimo Nainggolan. Cesena e Sampdoria palleggiano mentre tutti si chiedono se Cassano rientrerà in squadra: sarà come sarà, intanto Pazzini all’ultimo respiro trova il primo gol stagionale e ruba il borsello coi tre punti. Ah, già, Parma e Chievo; le dimenticavo perché nessuno si è accorto fosse una partita: zero a zero. Quando si fa sera, l’andatura compassata dell’accelerato Serie A raggiunge l’ultima stazione, portando la Fiorentina a Catania, e i tifosi hanno capito l’antifona: fischi per lo show che tale non è, e altro 0-0.
L’impressione generale è che il calcio peninsulare sia in terapia intensiva. Prognosi riservata, ma prospettive di guarigione non tanto prossime.
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